Il popolo di Pechino e l'Imperatore suo padre (Altoum) le fanno però pressione affinché si sposi.
Ella alla fine accetta di sposare solamente il giovane nobile che sarà in grado di sciogliere i tre enigmi da lei proposti: se fallirà, però, morirà.
L'opera si apre con l'ennesima testa che cade, quella del giovane Principe di Persia.
Tra la folla è presente in quel momento Calaf, principe tartaro spodestato, che non riesce a resistere alla bellezza di Turandot e decide di provare a risolvere gli enigmi.
Fra la folla ritrova il vecchio padre (Timur) e la fedele schiava Liù (da tempo segretamente innamorata di Calaf) che tentano inutilmente di fargli cambiare idea.
Calaf si ritrova faccia a faccia con la "bella di ghiaccio" di cui riesce a risolvere tutti e tre gli enigmi.
Turandot è ovviamente disperata e Calef le propone a sua volta un enigma: se prima dell'alba la Principessa riuscirà a scoprire il suo nome, egli morirà.
Altrimenti diventerà il suo sposo.
Turandot, riesce a rintracciare Timur e Liù, ma entrambi taceranno, anzi, Liù sentendo di non poter resistere alle torture a cui la stanno sottoponendo, si suicida.
Alla fine sarà lo stesso Calaf a rivelare alla principessa il proprio nome, ma solo dopo essere riuscito a darle un bacio appassionato.
Bacio che sconvolgerà nell'intimo Turandot, la quale andrà con Calaf davanti all'imperatore suo padre ed al popolo, annuncerà trionfante di aver finalmente scoperto il nome dello straniero: "Il suo nome è "Amor".
(dal Dizionario enciclopedico universale della musica e dei
musicisti UTET). La genesi della Turandot dipende dalla soggezione di Puccini all’ambiente
teatrale dell’epoca. Il culturalismo delle avanguardie e della critica
musicale, in Italia, si dimostrava
insensibile al suo teatro e lo respingeva ai margini di un’attività nella quale Toscanini esercitava
il suo dominante influsso a favore di musicisti più giovani, o di un repertorio cui era legato da considerazioni sentimentali. Inoltre, la fedeltà di Puccini al tipo
di melodramma ottocentesco , malgrado
ogni esteriore rinnovamento in senso esotico, aveva generato l’equivoco per il
quale risultavano ignorati i requisiti fondamentali del suo stile, rispetto ai
presunti avanzamenti del novecento italiano.
La proposta di Renato
Simoni per Turandot, dalla favola di carlo Gozzi, rientrava in una concezione
attuale del teatro in funzione astratta e spettacolare, cui avrebbe dovuto
corrispondere una rottura degli schemi melodrammatici che costituivano la
misura di Puccini. Dal contrasto fra tale concezione e l’insopprimibile
esigenza, da parte di Puccini, di una vicenda naturalistica traducibile in
valori di canto e quindi in una genesi vocalistica dell’opera, nacquero il
frammentismo di Turandot e la sua stessa mancanza di conclusione.
Il carattere cerimoniale dell’atto primo venne risolto da
Puccini in un’architettura oratoriale,
dove gli infelici e talvolta ridicoli versi di Adami e di Simoni vennero impiegati come
semplici supporti di una partitura fondata sulle proporzioni sinfonico-corali, con interventi di soli, di
un unico quadro: l’immaginaria etnofonia cinese e gli schemi della marcia, dell’inno
e della danza costituirono un eccellente formulario sostitutivo di quello
liturgico, nel quale il maturo Puccini seppe trovare autonomi equilibri, così
come in gioventù aveva ottemperato a quelli eteronomi della Messa. L’esclusione
di Turandot, come solista, dall’atto I, nasce da ragioni formali molto precise,
in quanto il rilievo del personaggio avrebbe interrotto, con la necessaria
attribuzione di una grande aria, la continuità dell’architettura non
operistica.
Nell’atto II, l’estrapolazione delle maschere dal tessuto
dell’atto I, e l’introduzione di
Turandot e di Calaf come protagonisti di un episodio operistico, creano
forti squilibri che Puccini tentò di sanare con accorti inserimenti sinfonico-corali; ma il corso
della vicenda lo costrinse ad attuare uno sviluppo melodrammatico nel
meccanismo concitato dell’aria di Turandot.
L’atto III venne sconvolto da un profilo musicale che alterava la logica del libretto,
e che invece rappresentava un ritorno di Puccini al favorito esito tragico
delle fanciulle che soccombono all’amore sofferto. L’impossibile aggiustamento
del libretto affidato fra l’altro a collaboratori che esigevano da Puccini una
condotta assolutamente estranea alla sua natura, si protrasse fino al momento
della morte del compositore. Ma lasciò intatto l’episodio della morte di Liù
che, avulso da un contesto che aveva per protagonisti Calaf e Turandot, si
presenta come l’estremo e più tipico frammmento della musica pucciniana, nel
quale coincidono la sublimazione dell’ispirazione
melodica, le sue correlazioni con il trattamento armonico e orchestrale
particolarmente raffinato, il tutto reso concreto nello schema della marcia
funebre.
(riflessioni personali) Dalla fonte sopracitata si evince in
questa opera un lavoro del compositore travagliato e destinato ad imporre uno stile proprio di Puccini in controtendenza con
quello che era il gusto musicale del primo novecento. Ma la forza di Turandot
sta proprio in questo: mantenere l’identità di uno stile pucciniano basato sull’estrema
esaltazione del patos melodico integrato in un percorso creativo di
spettacolarità e trasformazione multiculturale. Dopo la sequenza che racconta
in musica la morte di Liù, Puccini lascia questa terra ma ci regala una grande
eredità, la sua musica, secondo me
sapientemente ripresa nel suo stile dal M° Franco Alfano per concludere l’opera
incompiuta.
ATTO TERZO Quadro Primo
E’ notte, nel
giardino della Reggia.
Gli Araldi
diffondono la volontà della Principessa: ognuno vegli e cerchi di conoscere il
nome del Principe ignoto. Anche Calaf veglia pregustando la sua dolce vittoria
(Nessun dorma).
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