sabato 14 luglio 2012

I love Puccini

In Cina, in un mitico "tempo delle favole", viveva una bellissima e solitaria principessa (Turandot), nella quale albergava lo spirito di una sua antenata violentata e uccisa. Da ciò nasceva l'orrore di Turandot per gli uomini.

Turandot di Giacomo Puccini
Il popolo di Pechino e l'Imperatore suo padre (Altoum) le fanno però pressione affinché si sposi.
Ella alla fine accetta di sposare solamente il giovane nobile che sarà in grado di sciogliere i tre enigmi da lei proposti: se fallirà, però, morirà.

L'opera si apre con l'ennesima testa che cade, quella del giovane Principe di Persia.

Tra la folla è presente in quel momento Calaf, principe tartaro spodestato, che non riesce a resistere alla bellezza di Turandot e decide di provare a risolvere gli enigmi.

Fra la folla ritrova il vecchio padre (Timur) e la fedele schiava Liù (da tempo segretamente innamorata di Calaf) che tentano inutilmente di fargli cambiare idea.

Calaf si ritrova faccia a faccia con la "bella di ghiaccio" di cui riesce a risolvere tutti e tre gli enigmi.
Turandot è ovviamente disperata e Calef le propone a sua volta un enigma: se prima dell'alba la Principessa riuscirà a scoprire il suo nome, egli morirà.

Altrimenti diventerà il suo sposo.

Turandot, riesce a rintracciare Timur e Liù, ma entrambi taceranno, anzi, Liù sentendo di non poter  resistere alle torture a cui la stanno sottoponendo, si suicida.

Alla fine sarà lo stesso Calaf a rivelare alla principessa il proprio nome, ma solo dopo essere riuscito a darle un bacio appassionato.

Bacio che sconvolgerà nell'intimo Turandot, la quale andrà con Calaf davanti all'imperatore suo padre ed al popolo, annuncerà trionfante di aver finalmente scoperto il nome dello straniero: "Il suo nome è "Amor".
 
(dal Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti UTET). La genesi della Turandot dipende dalla soggezione di Puccini all’ambiente teatrale dell’epoca. Il culturalismo delle avanguardie e della critica musicale, in Italia, si  dimostrava insensibile al suo teatro e lo respingeva ai margini di  un’attività nella quale Toscanini esercitava il suo dominante influsso a favore di musicisti più giovani, o di  un repertorio cui  era legato da considerazioni sentimentali.  Inoltre, la fedeltà di Puccini al tipo di  melodramma ottocentesco , malgrado ogni esteriore rinnovamento in senso esotico, aveva generato l’equivoco per il quale risultavano ignorati i requisiti fondamentali del suo stile, rispetto ai presunti avanzamenti del novecento italiano.
 La proposta di Renato Simoni per Turandot, dalla favola di carlo Gozzi, rientrava in una concezione attuale del teatro in funzione astratta e spettacolare, cui avrebbe dovuto corrispondere una rottura degli schemi melodrammatici che costituivano la misura di Puccini. Dal contrasto fra tale concezione e l’insopprimibile esigenza, da parte di Puccini, di una vicenda naturalistica traducibile in valori di canto e quindi in una genesi vocalistica dell’opera, nacquero il frammentismo di Turandot e la sua stessa mancanza di  conclusione.
Il carattere cerimoniale dell’atto primo venne risolto da Puccini in un’architettura oratoriale,  dove gli infelici e talvolta ridicoli versi di  Adami e di Simoni vennero impiegati come semplici supporti di una partitura fondata sulle proporzioni  sinfonico-corali, con interventi di soli, di un unico quadro: l’immaginaria etnofonia cinese e gli schemi della marcia, dell’inno e della danza costituirono un eccellente formulario sostitutivo di quello liturgico, nel quale il maturo Puccini seppe trovare autonomi equilibri, così come in gioventù aveva ottemperato a quelli eteronomi della Messa. L’esclusione di Turandot, come solista, dall’atto I, nasce da ragioni formali molto precise, in quanto il rilievo del personaggio avrebbe interrotto, con la necessaria attribuzione di una grande aria, la continuità dell’architettura non operistica.
Nell’atto II, l’estrapolazione delle maschere dal tessuto dell’atto I, e l’introduzione di  Turandot e di Calaf come protagonisti di un episodio operistico, creano forti squilibri che Puccini tentò di sanare con accorti  inserimenti sinfonico-corali; ma il corso della vicenda lo costrinse ad attuare uno sviluppo melodrammatico nel meccanismo concitato dell’aria di Turandot.
L’atto III venne sconvolto da un profilo  musicale che alterava la logica del libretto, e che invece rappresentava un ritorno di Puccini al favorito esito tragico delle fanciulle che soccombono all’amore sofferto. L’impossibile aggiustamento del libretto affidato fra l’altro a collaboratori che esigevano da Puccini una condotta assolutamente estranea alla sua natura, si protrasse fino al momento della morte del compositore. Ma lasciò intatto l’episodio della morte di Liù che, avulso da un contesto che aveva per protagonisti Calaf e Turandot, si presenta come l’estremo e più tipico frammmento della musica pucciniana, nel quale coincidono la  sublimazione dell’ispirazione melodica, le sue correlazioni con il trattamento armonico e orchestrale particolarmente raffinato, il tutto reso concreto nello schema della marcia funebre.
(riflessioni personali) Dalla fonte sopracitata si evince in questa opera un lavoro del compositore  travagliato e destinato ad imporre uno  stile proprio di Puccini in controtendenza con quello che era il gusto musicale del primo novecento. Ma la forza di Turandot sta proprio in questo: mantenere l’identità di uno stile pucciniano basato sull’estrema esaltazione del patos melodico integrato in un percorso creativo di spettacolarità e trasformazione multiculturale. Dopo la sequenza che racconta in musica la morte di Liù, Puccini lascia questa terra ma ci regala una grande eredità, la sua musica, secondo  me sapientemente ripresa nel suo stile dal M° Franco Alfano per concludere l’opera incompiuta.


ATTO TERZO Quadro Primo
E’ notte, nel giardino della Reggia.
Gli Araldi diffondono la volontà della Principessa: ognuno vegli e cerchi di conoscere il nome del Principe ignoto. Anche Calaf veglia pregustando la sua dolce vittoria (Nessun dorma).



domenica 11 marzo 2012

la coerenza

Nell'ambito musicale spesso si è portati a criticare. Si critica il collega per questioni di tecnica esecutiva, per una errata interpretazione di un determinato brano, per un metodo di insegnamento, ecc. Fino a quando le critiche rientrano in un ambito strettamente professionale, secondo me tutto è giustificato e giustificabile, ma quando queste critiche si spingono ben oltre la sfera professionale e pretendono di entrare nel vissuto e nell'essere stesso dell'individuo, nasce l'incoerenza. Che brutta cosa l'incoerenza. Tu oggi distruggi con due parole la dignità di una persona, di un collega, di un ambiente, e il giorno dopo ti ritrovi ad aver bisogno di loro. Allora dimentichi tutto e fai buon viso a cattiva sorte. Caro amico incoerente e presuntuoso, da oggi in poi, se puoi, prima di sentenziare sulla pelle altrui, ricordati che l'incoerenza delle parole spesso è sinonimo di stupidità. Allora se non vuoi essere stupido impara a rispettare il prossimo tuo come rispetti te stesso.

venerdì 2 marzo 2012

io sono quello che penso

Ho sentito questa frase in televisione per caso. Pubblicizzavano l'uscita di un libro. Queste sono frasi che qualsiasi cosa tu stia facendo, in casa, a lavoro, per strada, ti fermano e ti fanno riflettere. E allora pensi: quante persone sento quotidianamente parlar male di tutto e di tutti. E' dal cuore dell'uomo che può nascere il bene e il male, e il cuore, secondo me, controlla sempre il pensiero e dunque, le nostre azioni. Se l'uomo ha il cuore di pietra, non può che sbagliare sempre nella sua vita. Se invece il suo cuore è di carne, sarà sempre ispirato in tutto quello che fa.

cascata

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